Pierantonio Tanzola                                       

                                                                 

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PROVE GENERALI PER UN’APOCALISSE.

 

La Memoria è un filo sottilissimo di cui si tace. Ogni memoria muta è una figura dell’Apocalisse. Smagliante urlante. Omissis. Ma l’immagine smagliante di un’Apocalisse è di per sé contraddittoria, è narcisismo di chi l’inventa e di chi la interpreta. Di Giovanni che l’ha scritta, di ogni pittore che l’ha rappresentata. Entrambi perfettamente a loro immagine. Il primo che fagocita parole in una febbre costante, il secondo che produce segni su segni con una minuzia fantasmagorica. Giovanni non aveva certo pensato a meraviglie di paramenti ai  virtuosismi del cesello. Ma il pittore, l’Apocalisse, non sa leggerla se non in termini di se stesso. Come si descrive il silenzio della memoria trascurata? Col silenzio o col segno? I pittori fiamminghi risposero dipingendo carnefici angelici che posano per la perfezione dei drappeggi e le vittime mimano un terrore mai sboccato. E’  teatro della meraviglia, macchina sapiente di persuasione. Omissis. Eppure nella testa di Giovanni, l’Apocalisse la immagino levantina e calda, sporca della polvere desertica e odorosa di traspirazioni. La immagino come una fila di corpi ricomposti in un Hangar o nella piazza antistante di una stazione…. E gli Angeli me li immagino stanchi di uccidere, madidi di sudore, col fiato grosso. Me li immagino ammutoliti che vestono divise, che mai e poi mai possono parlare. E m’immagino lamenti atroci di anime mutilate. Omissis.

Ma non qui. Qui è tutto un combattimento di linee rette contro spirali. La via maestra del Bene, contro l’immenso contorcersi del Male. I segni sono l’anima del Pittore, quasi tentativo di ordinare, di conquistare la quiete dell’icona. Eppure nel cielo di quel Nord Est schiumoso si consuma un vibrante temporale, con saette d’ali candide e fiamme di candelabri. E poi silenzi, silenzi terribili, spesso vestiti di atroci rivelazioni.

Ci sono i numeri il sette, il dodici, il tre, il quattro. La Kabbala infinita dei ritorni: quante le tribù, quanti i cavalieri? Dodici che è tre volte quattro. Quattro: guerra, carestia, morte, pestilenza. E quanti candelabri? Sette che è tre più quattro. E il numero preciso dei segnati?  Centoquarantaquattromila, dodicimila per dodici. E poi sette trombe e sette sigilli, sette teste del mostro. E sette stelle nel palmo aperto della mano di Dio, bianco nel candore terribile del Giusto.

Ci sono le date.

 

C’è un cielo di nubi viola che scolano sangue denso sul campo. E c’è un’amalgama terribile di nulla e tutto… Come la nostra coscienza che vaga nel troppo dichiarato sino a produrre solo silenzio. Quante cose vorremmo sentirci dire e nessuno ce le dice. Nel silenzio delle stanze ci sono Dei oppressi dai paramenti. E’ un vecchio stanco, come un Padre che si trovi costretto a punire i suoi figli. Il corpo esilissimo è come sorretto da un’impalcatura febbrile, le spalle incurvate per il peso del triregno. Intorno gli angeli espongono i simboli del martirio supremo.

E’ un dolore sommesso e irraccontabile.

 

Ecco: quel che vedo non è raccontabile. La lingua balbetta e il respiro si fa pesante. Ecco: qualunque parola non assomiglia nemmeno pallidamente all’immagine di quello che vedo, non ci sono termini per i colori quando questi non sono colori, ma cromìe. Che colore ha il camaleonte? Un’ala di  libellula? Il manto del crotalo? L’onda del mare? La corteccia della betulla? L’estensione nebbiosa dei segreti. Quello che vedo non assomiglia in nulla a tutto ciò che è vedibile. Visibile e invisibile non sono nient’altro che una tumescente agonia di tratti. Nient’altro che bolle di colore avvinghiate da capillari sottilissimi di Segno. Oh, la magnifica compostezza del tutto che si fa uno. Così agisce la mano del Pittore quando consegna i particolari ad una casualità che pare persino irriverente, ma è solo il frutto di un movimento incorporato all’estremo, dentro al respiro, dentro ai capillari. Così avvengono  le  apocalissi della rappresentazione, attraverso distrazioni apparenti, attraverso atti apparenti, attraverso coscienze tenute a distanza. Omissis. Qui è la carne che lavora e fa corpi e fa raggi e fa luci ed  ombre e fuoco e fiamme e acqua e vento. E fa genesi di Genesi senza ipotesi di riposo. In questa particolare Apocalisse non c’è riposo. In questa particolare Apocalisse di quanto può essere visto, ma non descritto se non con strumenti inadatti, il riposo non è contemplato. Si sputa sangue al torchio per un’ipotesi di perfezione che resta un’aporia. Il paradosso di un’Apocalisse è che, perché sia tremenda, dev’essere descritta in ogni suo punto. Ma perché sia tremenda deve stare nella gamma del pensabile. E poi precipitare nell’indicibile. A questo pensavano i primi uomini quando decisero di raccontare l’istinto in forma di bisonte e l’uomo in forma di segno. Anche lì ciò che era, apparentemente, inspiegabile apparve chiaro ai loro occhi: la paura del fruscio notturno, l’odore del pelo di bestia, il suono delle froge, la stretta del pericolo. Quello era un corpo, una massa di pelo e corna. Ma gli uomini, loro stessi, collettori di quel tutto erano un niente grafico, erano una sintesi secondaria. In quella particolare Apocalisse andava rappresentato il senso attraverso una sola sostanza. Chiunque fosse entrato in quella caverna avrebbe potuto comprendere la storia mai, e poi mai, finita della nostra enorme piccolezza.

Così si fanno avanti le schiere degli ossimori. In ogni Apocalisse che si rispetti gli opposti convivono integrandosi: è per questo che  carne visibile rappresenta l’anima invisibile. Come un vaso cinese, dice un poeta, come una porcellana finissima che abbia il compito di custodire una materia talmente preziosa e volatile che non sia rappresentabile autonomamente. Il contenitore descrive il contenuto. Il primo ossimoro è: carnalmente eterna. Dentro al corpo apocalittico manca l’ipotesi di putrescenza, certo c’è la piaga, certo c’è il vulnus, ma sono anch’essi trucchi della rappresentazione come l’attore shakespeariano che entra nel palco ferito e sanguinante dalla battaglia. Dove è  stata quella Battaglia? Oltre le quinte, fuori dalla nostra vista, ci sono eserciti in lotta? Dove si colloca questa Memoria rimossa? Forse dentro a un armadio dimenticato, in una cartella gialla, in mille fogli  straziati dalle cancellature. Omissis.  L’Apocalisse che si rispetti è teatro di domande terribili. Ma, ancora una volta, come mai si crede di poter rappresentare quelle domande? Ecco corpi mortali che vestono panni di un niente immortale. Carnalmente eterni. Orrendi, desertici, silenziosi. Omissis. L’inferno dev’essere l’impossibilità di rappresentare. Ecco, certo, l’impossibilità di dare carne all’anima. In questa Apocalisse è chiaro che per la vita è necessario soffiare un respiro sul fango, ma è altrettanto chiaro che, per la rappresentazione è necessario dare corpo all’invisibile. Segni benedettissimi! Dimessi, non Colori.

Il secondo ossimoro è: crescere per umiliarsi. E qui si mette un piede nel territorio dei nastri perpetui: qui vale anche umiliarsi per crescere. Carne virtualmente putrida contro anima virtualmente immortale per raccontare che il corpo non esiste,  quasi a dire che raccontiamo l’abito per dire che non serve il corpo che lo indossa. Le Apocalissi rifiutano le semplificazioni manichee. Non sono solo rappresentazioni sono congegni, quasi strumenti sinaptici. Attraverso il mortale, caduco, di cui abbiamo conoscenza dobbiamo accedere all’immortale che non conosciamo e ci spaventa. Vincere perdendo è un’ipotesi. Acquistare dignità toccando il fondo è un’altra, seducente, ipotesi. A questo serve la magnificenza massacrante di un’opera d’arte, a farci intendere quanto enorme possa essere la nostra piccolezza. Quel segno nella roccia, colui che sa rappresentare l’irrappresentabile in forma di bisonte, l’ultimo, infimo segno, petroglifo o graffio esasperato con punta d’ossidiana. Quella grandezza inizia dal cedimento. Ma si è grandi solo  a patto di combattere. Il viaggio comincia all’arrivo, la vita comincia solo dopo la morte. Il resto è palcoscenico e rappresentazione. E’ il trucco pesante sulla faccia del clown. La memoria non muore, la Memoria dorme, ha un sonno leggerissimo. La si custodisce imbavagliandola.

Il terzo ossimoro è: superficialmente profondo. L’arte dell’inganno. La macchina della persuasione che attraverso l’involucro fa passare il contenuto millenario, il centro del discorso pronunciato da labbra differenti sulla torre. Ma anche  profondamente superficiale l’involucro che determina il senso del discorso per la Pentecoste dei decerebrati. Dentro a questa particolare Apocalisse è facile assistere al sonno della ragione. In questa particolare Apocalisse il sorriso senza corpo ammalia corpi senza sorriso. Oh, superficialmente profondo: l’incanto dell’incanto: vince chi offre di meno.

Omissis.

 

Marcello Fois

 

 


 

 

 

 

 

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