Pierantonio Tanzola                                       

                                                                 

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La terra è lì, per raccoglierne il sangue

 

 

Da ragazzino, dopo certi eventi, dopo qualche lite, dopo qualche delusione, dopo che il mondo mi aveva in qualche modo preso a schiaffi e deriso, uscivo di casa e iniziavo a camminare. Nei campi. Abitavo in campagna e l’unico spazio dove cercare consolazione, e un po’ di respiro, era quello misterioso e indifferente dei campi. Gli alberi, i fossati, le distese di terra appena arata non avevano, in realtà, niente di preciso da dirmi (i libri, la musica, i sogni pop, o anche i discorsi politici, accendevano molto di più la mia immaginazione), ma sembravano comunicare con qualche piano profondo, arcano, quasi genetico della mia percezione. I campi d’inverno, soprattutto, col loro vuoto polare, mi facevano sentire ignorato ed eroicamente solo, proprio come desideravo sentirmi, e al tempo stesso compreso in qualcosa di antico. Una specie di malinconia primordiale. Essere lì era inutile, eppure naturale. Forse, per ognuno di noi, c’è un paesaggio a cui è inutile eppure naturale guardare, quando il mondo ci colpisce con fatti più o meno intimi, più o meno ‘storici’. Quando apprendiamo ad esempio che un certo personaggio è morto, o che un’altra strage è compiuta, o che i fascisti hanno ucciso un poeta.

La galleria di fatti di importanza storica (ma dotati di ‘risonanza intima’) evocati da Pierantonio Tanzola acquista qualcosa di ancora più doloroso, e ambiguo, nel confronto con quel paesaggio. Quel suo paesaggio arcano, naturale, colmo di una specie di calma crudele. Uno zen della pianura. La strana dislocazione spazio-temporale messa in scena da queste figure (fatti storici a confronto con immagini senza storia) può lasciare indifferenti, o accendere intuizioni senza nome. Proprio come una campagna d’inverno. Proprio come una passeggiata nei campi freddi, quando si è piccoli e feriti, e non c’è niente da ascoltare, niente da imparare, tranne quel senso di naturalità. Ciò che accade è naturale. Se il mondo muore, è naturale.

A una certa età andai via dalla campagna, perché ero convinto che il mondo, o per lo meno la mia vita, si potessero cambiare. Ero entrato, a qualche livello, in una dimensione di consapevolezza politica. Difficile avere idee politiche e vivere in campagna: la campagna è impolitica. La sua eternità è impolitica. La campagna non crede ai cambiamenti del mondo, e nemmeno delle persone. Vi assiste magari con dolore, ma sostanziale scetticismo.

Quando mi capita di tornare a confrontarmi con quel paesaggio, sento molte mie convinzioni traballare. Per avere una percezione della ‘fine della Storia’ non serve frequentare intellettuali postmoderni o leggere libri di Fukuyama. Basta guardare una campagna. Non a caso, in zone come quella dove sono nato, la gente tende a trasformarla e a seppellirla, la campagna rimasta, sotto uno strato di cemento,  capannoni industriali, aree abitative, ipermercati, sexy shop, concessionarie d’auto. Come qualcuno che addobba, nascondendola, la superficie di un’imbarazzante verità.

Certe cose non cambiano e forse non cambieranno. I fascisti lo uccidono ogni giorno, sulla Terra, un poeta. La terra è lì, per raccoglierne il sangue.

 

 

Marco Mancassola

(dal catalogo "Tanzola - Omissis",

Centro Nazionale di Fotografia, Sottopasso della Stua, Padova 2006)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA VERITÀ È SEMPLICE E SEMPRE PIÙ CHIARA

 

«Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora.» L’uomo era un angelo e Giacobbe aveva in pratica trascorso la notte lottando corpo a corpo con Dio. Mi ha sempre dato i brividi questo racconto della Genesi. D’altro canto, sappiamo che è l’intero Antico Testamento a costituire la cronaca di una guerra –la guerra ottusa, infantile e vertiginosa condotta dall’uomo contro Dio. Non è antichissima la storia di questa guerra? O Signore, dice il mistico dentro di me. Quanto antica è la mia rabbia contro di te. Fin da millenni prima che io nascessi ho iniziato a combatterti.

In seguito, essendo l’uomo subdolo ma non sempre stupido, capì che quella lotta era impossibile. Che razza di sfida senza speranza era questa? C’era troppo squilibrio di forze in campo. Era come se la pulce cercasse di stendere l’elefante. L’uomo scopriva di non poter distruggere Dio e per questo cambiò bersaglio, accontentandosi di iniziare a distruggere la natura. Intraprese l’opera con molto impegno. Cos’altro poteva fare? Se non posso distruggere il Creatore, sussurra l’uomo al colmo della sua febbre, posso almeno distruggere il Creato.

Adesso veniamo all’Artista. In tempi recenti l’Artista contemporaneo pensò di volersi confrontare con il tema della natura, con la sua bellezza ambigua e morente, poiché prima o poi ogni artista getta uno sguardo alla natura. Lui non sapeva ancora che, con questa decisione, stava per mettere in scena lo scontro più antico del mondo. L’Artista stava usando un mezzo culturale umano, la creazione dell’opera, per confrontarsi con la natura. Cultura contro natura. Sempre quella vecchia storia.

Ovviamente l’Artista non stava spargendo rifiuti tossici, non stava distruggendo quel poco che restava dell’ambiente naturale, non stava bruciando alberi né uccidendo animali. Non stava facendo nulla di questo. Stava soltanto creando la sua opera. Lasciatemi fare il mio lavoro, diceva l’Artista a chi lo interrogava. Sono uno che prova a creare qualcosa.

Creare è un’illusione del tutto culturale. Significa ricorrere ai codici della cultura umana. È proprio per mezzo della cultura che l’uomo si pone fatalmente in guerra contro la natura. Com’è perversa questa situazione! Mettiamoci nei panni della natura. Sarebbe come se in una guerra sanguinaria e di lunghissima data, mentre stiamo morendo e il nemico ci infligge il suo colpo crudele, gli artisti al seguito del nemico si mettessero a farci un ritratto. Si mettono lì e ci prendono a modello per le loro fantasie creative. Questo è ciò che fai, disse dunque la natura all’Artista che andava in cerca di lei. Ritrai la mia fine. Vieni a fotografare il nemico che muore.

Allora l’Artista si sentì turbato. Lui non si sentiva un necrofilo, non voleva affatto ritrarre la morte di qualcuno. Il suo interesse per la natura era per qualcosa di vivo e di verde e pulsante! Per questo se ne andò in cerca di angoli di natura incontaminata. Scattò foto e girò bei documentari sugli ultimi paradisi. Comprese però che in tutto questo c’era della finzione, poiché nulla di incontaminato esisteva più davvero. La natura era ovunque toccata dall’uomo. E quel tocco aveva dissolto la sua gloria, il suo mistero, la sua polvere magica, come le ali di una farfalla quando qualcuno le sfiora.

L’opera di distruzione era pressoché compiuta. La natura sembrava resistere qua e là in piccole sacche, certo, c’erano residui di foreste e qualche distesa di territorio impervio non ancora colonizzato e angolini sparsi di bellezza naturale dove i turisti, e altri artisti come lui, andavano a scattare scenografiche foto. Ma quella non era natura vera. La natura era stata selvatica, fiera, radicale. Non prevedeva autostrade attraverso le foreste, posti ristoro sulla cima delle montagne né telefonini per chiamare aiuto se ti perdevi dentro un bosco. La natura aveva il suo legittimo mistero. Era altro da noi, era in grado di tenerci testa.

Quella che oggi chiamiamo natura è a malapena un fantasma, una versione emaciata, addomesticata, tenuta in vita per gentile concessione umana, rinchiusa dentro parchi naturali di pochi miseri ettari. Dunque questo è un grosso guaio. Perché la natura esisteva, era presente, era qui e ora, ci circondava, ci limitava, era insomma reale. Era la cosa più reale che ci fosse. Era la riserva aurea del nostro senso di realtà. Sarà per questo che mentre distruggevamo in maniera forsennata la natura, un senso di irrealtà calava sulla nostre vite come un velo?

L’Artista si sentiva sempre più turbato. Lui voleva solo creare la sua opera. Ma nel momento in cui si confrontava con la bellezza morente della natura, capiva fatalmente di essere dalla parte sbagliata.

Eppure, cos’altro poteva fare? Infine io comprendo l’Artista. Avrei fatto la sua stessa cosa. Proprio come avrei fatto la stessa cosa di Giacobbe. Eccomi. Non è questa una storia antica e sempre nuova? Ancora una volta io sono laggiù, sulle fiume del fiume Jabbok. Ancora una volta sono un antico patriarca, sono un uomo, sono un artista e sto lottando contro l’angelo, sento il suo fiato, mi avvinghio a lui. Mi chiedo perché tutto questo sia cominciato. Sento che non ho possibilità di fermarmi. La verità è triste e sempre più chiara. Sono un uomo, posso soltanto distruggere.

 

 

 

Marco Mancassola

Liberamente ispirato alle opere di Pierantonio Tanzola – Alessandro Rinaldi

(dal catalogo "...ERGO...",

Kunsthaus Tacheles, Berlino 2009)

 

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