Pierantonio Tanzola                                       

                                                                 

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MARCO FRANZOSO

Ho conosciuto Pierantonio Tanzola un martedì mattina di settembre, 2016, la luce verso mezzogiorno appariva innaturale, per quel mese, troppo tagliente, lo ricordo bene, e ora, qualche mese dopo mi sembra di ricordare che come in certe giornate di agosto faceva vibrare i contorni delle cose, e per questo noi cercavamo un posto giusto per gli scatti, adatto, e lui ha consigliato di farli nel grande salone di Palazzo della Ragione, quasi al buio, invece, al contrario di fuori, dove la polvere in sospensione rendeva densa l’aria, quasi palpabile, concreta, e abbiamo scelto una posizione neutra, senza il simbolo troppo invadente del cavallo di legno, né elementi pittorici che potessero connotare la scena, perché si voleva dare forza allo spazio in penombra, alla densità dell’aria, e fare sì che questa densità si imprimesse nell’immagine, credo, e insomma, oltre alla luce tagliente dell’esterno e alla penombra dell’interno si è aggiunta la densità concreta e quasi tangibile dell’aria, e così abbiamo fatto, e poi quando abbiamo trovato la giusta collocazione per me e per il mio corpo, in un luogo a metà strada tra tutto, tra le pareti e i dipinti, in un luogo non troppo centrale e non troppo marginale del salone, lì, proprio lì, a metà strada tra tutto, Pierantonio mi ha chiesto di stare fermo per qualche secondo dopo che lui aveva premuto il tasto, un tasto appunto, dopo cui partiva il tempo laterale della pausa prima dell’autoscatto, visto che era proprio una specie di autoscatto, quello, ma generato da lui su di me, e non da me su di me, ma che dell’autoscatto condivideva il fatto che nessun occhio guardava il mondo dentro l’obiettivo mentre si azionava il ventaglio circolare dell’obiettivo, e in quei due, tre secondi di vuoto, tra il suo premere il tasto e lo scatto mi sforzavo di stare fermo senza pensare, di trasformarmi in una statua di gesso o una maschera di madame Toussaud, in una cosa, comunque, in qualcosa che ora definirei “riverbero che direttamente senza la mediazione umana avesse la forza di imprimersi da solo sulla pellicola”.

Ne ho avuto la conferma la settimana successiva, quando nel suo studio di artista post post moderno, o premoderno, tecno-arcaico, di un’età che comprime il digitale con l’homo sapiens cacciatore preverbale, mi ha fatto vedere (appunto: mi ha fatto “vedere”) le sue opere, una delle quali mi ha colpito più delle altre, per il suo nitore materico, per la sua concretezza palpabile e indefinita: una carta sensibile impressa direttamente dalle cose, immagine che per un fotografo si raggiunge con un salto indietro vertiginoso, ma anche oltre l’occhio umano dell’autoscatto, e anche oltre la mediazione della macchina fotografica, e pure oltre il negativo (chi lo ricorda più?) o l’impressione della luce su supporto digitale, ma luogo o posto dove resta solo l’immagine, scarnificata e tangibile, foglie e fango impresse direttamente, rese immagine per il contatto con la carta, sepolta per mesi sotto terra e violentata dagli agenti atmosferici, dalla terra, dai sassi, dalle foglie, dai piccoli animali terrestri che l’hanno in quel tempo abitata.

Lo stesso per i suoi ritratti, mentre aspetti, in un tempo sospeso tra il tasto premuto e lo scatto dell’obiettivo, sembra di essere catturati, messi in gabbia, sepolti da un’improvvisa ventata di luce, perché in quei pochi secondi di attesa e di trasformazione del sé in immagine, ci si sente esseri di luce e allo stesso si percepisce che non è del vedere che si sta parlando, ma della materia di cui è fatto lo sguardo.

 

Marco Franzoso, 2016                               

(dal catalogo "Visi d'arte",

Palazzo della Ragione, Padova 2016)

 

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