Pierantonio Tanzola                                       

                                            

               

    

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Pierantonio Tanzola: homo faber d’altri tempi

 

Non sarebbe così strano se fossimo nel pieno della classicità: incontrare un artista e sapere che possiede doti anche nel campo della musica, o poterlo interrogare su questioni estetiche, o quale avido lettore di poesia, o frequentarlo come intellettuale completo erano prerogative eccezionali eppure non imprevedibili in tempi in cui le arti non avevano ancora intrapreso dei percorsi individuali, preludendo la modernità. Oggi, a fronte d’un inarrivabile specialismo tecnologico, l’arte sa proporre una singolare quanto nebulosa zona grigia in cui le opere e la critica si muovono spinti da meccanismi “altri”, proni al solo anelito di scoprire una sorpresa, l’innovazione a tutti i costi, scambiandola per eccellenza. Se è vero che l’io regna sovrano in moltissimi dei protagonisti dell’effimero contemporaneo, troppo impegnati a parlare di sé come innovatori neo-rinascimentali per poter solo per un attimo capire e ascoltare ciò che gira attorno a loro, non stupisce il fatto che quelli siano i primi a rimanere indifferenti a quel rumore di fondo dell’universo, e alle leggi del cosmo, con tutti i suoi linguaggi, i suoi meccanismi, e i suoi messaggi.

Trovare un artista che, come Pierantonio Tanzola, sappia sorridere alla seriosità di chi si prende troppo sul serio mentre cavalca l’individualismo (o, ancora peggio, il divismo, o il mercato) è cosa rara; ancora più raro è trovare chi sappia offrirsi “umilmente” come artista, e rivestire anche il ruolo di musicista, fotografo, lettore, e critico, rimettendo in gioco quella classicità che significa perizia di homo faber a tutto tondo, o inestimabile makar, costringendoci a rivoluzionare i parametri secondo cui etichettiamo e cataloghiamo il mondo.

Questo lavoro di sottrazione dell’io, che qualche artista pratica con successo, ricorda l’agognata ricerca della haecceitas di filosofi e poeti. Pierantonio Tanzola, in molte delle sue opere, aspira proprio a questo: diventare solo un mezzo attraverso il quale la natura si auto-ritrae, mettendo in scena la sua alterità. E sovvengono qui le parole del filosofo Thomas Nagel che, studiando lo spostamento graduale da una visuale personale sulla realtà del mondo a una percezione sempre più oggettiva (e non umana), è arrivato alla convinzione che l’obiettivo finale di questo processo è la considerazione del mondo come una entità senza un centro, e l’osservatore come solo uno dei suoi possibili contenuti. (Thomas Nagel, Mortal Questions, Cambridge: Cambridge University Press, 1979, p. 206). La metafora è chiara. Ipotizziamo per un attimo che l’uomo abbia perso, o non abbia mai avuto la capacità di discernere secondo gli assoluti di cui ci siamo abituati: cosa diremmo se la sua interpretazione/rappresentazione del reale fosse sempre stata un parametro fallace?

Di questi tempi, solo l’artista sensibile e profetico può farsi portatore d’un messaggio grande quanto un vero monito diretto ai suoi estimatori/osservatori, una lettura fredda a onesta sul contemporaneo: la terra va immaginata senza nulla di umano, luogo in cui la storia si deve rifare, dove sono ormai scomparsi scopi e méte, e la natura mette in scena se stessa. Lo stesso Tanzola ci dice: “Una realtà nuova, una nuova visione, un ritorno al bosco e non una fine del mondo, ma un inizio, un’alternativa, un oltre-dove.” Ecco allora i suoi procedimenti/risultati: foto ottenute con carta fotografica che durante la notte viene coperta da cumuli di foglie secche, lasciate per circa due settimane alle intemperie per far sì che la natura si auto-ritragga; o una matrice xilo, lavorata e incisa, che non verrà mai stampata, ma che rimarrà per sempre come opera originale; o l’opera “Inni alla notte” che è il tentativo di realizzare delle immagini che rappresentano i fantasmi del reale, alberi non come ci possono apparire nel buio della notte, ma come vere e proprie apparizioni, una rappresentazione animista del mondo, un’occasione per incamminarci verso un “oltre-dove”, luogo in cui riusciremo a incontrare noi stessi come “realmente” siamo.

La questione dell’identificazione, ha osservato Homi Bhabha, “emerge solamente nell’interstizio tra il disconoscimento e la designazione, viene esibita nella lotta agnostica tra la domanda visuale ed epistemologica per la conoscenza dell’Altro e la sua rappresentazione nell’atto dell’articolazione e dell’enunciazione.” (Homi,Bhabha, The Location of Culture, London and New York: Routledge, 1994, p. 50). Il continuo rimbalzo di Pierantonio Tanzola dai mezzi e dai materiali dell’arte classica al tradimento di questi mezzi lo pongono al centro d’uno spazio-soglia che è baratro, vertigine ma anche dialogo, mediazione, creazione, un interstizio dove l’io si depura e, smarrendosi, dichiara a piena voce che il mondo c’è, nonostate tutto, e nonostante l’uomo.

 

 

Marco Fazzini

dalla rivista  "AREA ARTE"  - autunno 2013

 

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Conosco Pierantonio Tanzola da diversi anni, e lo conosco come persona generosa e impegnata in vari campi delle arti. Ma non voglio qui parlare di lui come uomo, perché chiunque lo abbia, anche per poco, frequentato potrà testimoniare delle sue capacità e del suo modus operandi. Volendogli fare un tributo, ho pensato che Pierantonio fotografa fin da quando era ragazzo, quindi da più di 40 anni, dal tempo in cui la fotografia si consumava con le ormai storiche macchine manuali, con gli obiettivi ingombranti, con le pellicole e gli acidi della camera oscura. So che Pierantonio ama la storia della fotografia, e i vari passaggi che hanno portato ai recenti sviluppi di quest’arte, in primo luogo i dagherrotipi, le carte, i solventi e le reazioni che danno spazio alla magia, conducendo l’occhio, alfine, a osservare l’impressione d’una immagine su un foglio. Così, seguendo quella traccia, ho scritto per lui una poesia, che spero catturi il mistero di quel parto, proprio l’atto della nascita dell’opera, il suo risolversi, comporsi, e rivelarsi al mondo. È il mio personale augurio per ogni successo della sua mostra, e per tutti i domani di questo mirabile artista.

Marco Fazzini

 

Il parto della luce

 

È là, sopra un foglio devastato da un bagliore,

Che l’immagine naviga come goccia gigantesca, e viscosa.

Impeccabile, la sua forma cela una materia.

Nel turbinío di formazioni intestine, nell’albume d’un fulgore,

Navigando dentro al nero, figure diafane si disegnano

Per scomparire lentamente, membra sparse si ricongiungono,

S’allontanano, occhi sorridono per un istante,

Finché un fremito delirante sembra farsi più rapido,

Al punto d’apparire per un attimo suadente.

Ma ecco che le immagini prendono corpo, si precisano,

E un gioco d’arabeschi si scioglie nella forma d’un viso,

Poi d’un altro, due gemelli, attaccati per il collo, che tu muovi

Mentre tentano, forse, di baciarsi in un amplesso latteo,

Con le fronti che si slargano a riempire l’intera superficie,

E poi perdersi nel gioco e nei contorni di profili nuovi.

Un volto di donna qui ci affiora, la bella Elena

Che saluta i Dioscuri, esseri fatti di vetro, metallo,

Superfici lucide, nel mezzo d’un gran ballo, presenze

Non umane, uno splendore che non è da vivi. Zeus

Li benedice, mentre Elena, rapita, fa brillare dietro sé

Uno stuolo di lance, carri e armature d’inaudite beltà e violenze.

Le vele e Menelao l’accompagnano a destinazione,

Verso l’isola che rimira, sulle proprie acque, l’ombre della luna:

Mare Crisium, Mare Nibium, Mare Humorum, Mare Imbrium,

Mare Fecunditatis, Mare Frigoris, Mare Nectaris, Mare Insularum,

Mare Serenitatis, Mare Tranquillitatis…

Mare e terra qui in simbiosi, il bianco contro il nero,

Il nero dentro al bianco, prima che le fasi riportino la luce,

E poi di nuovo il buio, perché tutto ritorni al suo mistero,

Coi volti che s’assottigliano, e i morti che si fondono,

Si rifocalizzano, ritratti nel massacro di guerre un tempo

Desolate e poi sommerse: Oceanus Procellarum.

Il foglio è alfine impresso. Il nero è smentito.

L’eternità qui vive in un profilo definito.

 

Marco Fazzini, 2016                               

(dal catalogo "Visi d'arte",

Palazzo della Ragione, Padova 2016)

 

 

 

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“Una modesta proposta” contro l’abisso del contemporaneo

 

Pierantonio Tanzola, qui non più artista, fotografo o jazzista, ma poeta, mette a nudo la sua disillusione personale denunciando il pericolo e l’inevitabilità del baratro al quale s’è affacciato l’uomo contemporaneo: si tratta d’un effluvio poetico che va a fondersi con la retorica della preghiera per un’impossibile redenzione. La sua è ricerca disperata d’uno spiraglio che liberi l’uomo dalle paludi del già visto, e del già sopportato, auspicando una guida, un possibile Virgilio che guidi la cecità di chi è rimasto in vita, sempre più irretito nel buio ideologico e morale: “Non è il mio mondo / questo / né di mio figlio / Padre che sei nella terra / Sia fatta la nostra volontà”. Vi è ben poca speranza in questo grido accorato per “voce” sola che si confessa in prima persona singolare e mescola tragedia personale a critica civile per la rinascita d’una integrità di vita ormai scomparsa: “Gioco / giocano / con la mia. / Tra divi / decisionisti e puttanieri / sono vissuto e non mi piace…”

La poesia di Tanzola, a tratti, motteggia la tradizione poetica attraverso rime e mezzerime, sempre però ricordandoci della “prosaicità” dei tempi, e della sempre più evidente possibilità di piombare nell’autoreferenzialità e nel narcisismo artistico, letterario, politico. Osservando che ogni disciplina è ormai un campo in cui l’ingordigia trasversale contribuisce alle mire sia personali sia pubbliche, Tanzola parla del “male” della nostra Italia, un male tanto più evidente quando l’unico faro a illuminare la tempesta dei tempi sembra sia quella linea cromosomica che ci lega ancora a valori “intonsi” e “eterni”, quelli trasmessi dai nostri genitori, quelli d’una società ormai sorpassata e decaduta sotto le sferzate d’una “morte intellettuale” e fisica, inferta dai colpi di chi “sgomita, incolpa, spinge e uccide”.

L’empasse qui è eliotiana: si ha l’impressione d’essere immersi in una terra sterile popolata d’automi asserviti, dove regna la pochezza intellettuale (“Condannato alla sterilità / unica arma nella guerra contro l’autoreferenzialità”), e dove gli unici numi tutelari (Junger, Mishima, Herzog, Pound, Gordon, Coltrane, Borges, Lopez Garcia, Heidegger, Uccello, Derrida) potrebbero anche forse abbandonarci, o celarsi lungo il tragitto. Finanche quel labile aggancio a un mazzo di tarocchi che Madame Sosostris sciorinava nella Terra desolata s’è ridotto a un’unica, inutile carta: un due di picche. Scomparso è anche quel barlume d’una icona necessaria per la rinascita delle stagioni, effigie del marinaio annegato, Cristo o vittima sacrificale che dir si voglia: “Non si esprime nemmeno Cristo / che si nasconde e non si svela.” Gli interrogativi che Tanzola qui solleva sono molteplici: su quale terreno è ancora possibile dialogare con l’Altro? Quali le lingue (e i linguaggi) a nostra disposizione oggi per superare il grave stallo? Come gestire il dilagante narcisismo dei tempi e agire dentro il flusso d’un essere e d'un sentire plurale? Può la barbarie della finanza e della globalizzazione arrivare a un capolinea?

Per ovviare al problema della sovrappopolazione, della disoccupazione e della corruzione, nella sua “modesta proposta”, del 1729, Jonathan Swift usava i bambini poveri irlandesi come cibo per i ricchi, fornendo anche ricette per poterli pasteggiare al meglio. La sua capacità di satira era amara, e a tratti mostrava la disillusione per la decadenza dei suoi tempi attraverso la descrizione dei vari asservimenti prestati al capitale e ai potentati, attaccando ideologie, religioni, staccionate filosofiche e deviazioni del pensiero. L’ingordigia che rende noi tutti cibo per il qualunquismo del pensiero e del mercato è il tema di Tanzola, uno scrittore che ci scuote, invitandoci alla rinascita: adulti, bambini, classi proletarie, classi medie e alto borghesi indifferentemente sono qui ritratti a sedere alla mensa del contemporaneo, e ogni giorno fagocitano se stessi, martoriando corpo e mente, sia moralmente sia professionalmente. Le ideologie non ci sono più amiche, ci dice Tanzola, neanche quelle più riconoscibili (“Pugno chiuso e braccio ritto / son memorie a volte rimpiante / a volte ripudiate”), mentre la velocità dell’oggi, e la conseguente assenza di “pazienza”, hanno annullato il senso d’una comprensibile progressione dentro al tempo. Una lotta creativa, la sua, contro “il silenzio e l’inutile”, un estremo sforzo, sia quando perseguito con la scrittura, con l’arte o la fotografia – “il nuovo verbo avrà forza / per tramortire con penna / colore / e luce”. Questo è un disperato atto d’amore dovuto ai nostri figli che verranno e che ci seguiranno, perché per loro questa non sia una Terra oscura, una vita del tutto inutile da vivere: “Amore, Amore / stanalo dai tuoi pallori esistenziali / Appassionati del verbo / qualunque segno sia / non abbandonare il gioco che ti fa uomo”.


 

Marco Fazzini, 2018                              

(presentazione dal libro "LUOMO"

poemetto in XXVII canti. Ed. Turato - 2018)


 


 

 

 

 

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