Pierantonio Tanzola                                       

                                            

               

    

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LUCA CREMONESI

 

Ricerca in superfice
 

La nostra è un’epoca che adora la superficie. Lo scrive Alessandro Baricco nel suo ultimo saggio intitolato The Game (Einaudi, 2018). Come dargli torto. Allo stesso tempo l’autore torinese elogia questa superficialità. Ma qui diventa più difficile essere d’accordo con lui. Tuttavia, anche Nietzsche ebbe a dire che i «Greci erano profondi perché stavano alla superficie delle cose». Non che il grande filosofo tedesco serva come difensore di Baricco, ma è chiaro che un conto è scrivere, con semplicità, che la nostra è un’epoca che ama la superficie e altra cosa è problematizzare la superficialità. 

Le opere di Pierantonio Tanzola mi hanno rappacificato con questo concetto, quello cioè della superficie intesa come ciò che appare alla superficie. Trame, intrecci, linee, incontri. Sono l’anima profonda e viva delle superficie. Ricordo la scena magistrale de La mia Africa di Karen Blixen. Un rumore fa uscire, in piena notte, i personaggi del romanzo dalla loro casa. Si muovono al buio. Vagano. Finita l’emergenza rientrano in casa. La mattina, sul terreno, restano le trame, le tracce, gli intrecci del loro camminare. L’immagine che emerge alla superficie è quella di un grande uccello. 

La prigione del segno, dunque, è duplice. Quella imposta dall’autore, senza dubbio, e quella imposta dal segno stesso. A questo punto è chiaro che ciò che è in superficie è molto più complicato di ciò che vi è in profondità. Anzi, a ben vedere, la superficie consente al fondo di risalire, come nelle opere della serie Tyche

Velare e svelare è movimento che predilige la profondità. Mostrare alla superficie è figlio di una linea minoritaria che cambia il punto di vista. «La fecondità di un pensiero – scrive il filosofo Rocco Ronchi – è data da quel dissidio a esso intrinseco» e cioè da quella diversità di punti di vista che solo l’arte, sempre in anticipo sui tempi, riesce a far vedere. 

Questo “far vedere” alla superficie è chiaro, a mio modo di vedere e guardare l’opera di Tanzola. Ciò che si svela alla superficie può senza dubbio essere letto e ricondotto a ciò che già conosciamo. Un meccanismo che, purtroppo, penalizza da tanto e troppo tempo l’arte contemporanea. Quando non capiamo e siamo costretti a pensare allora preferiamo riconoscere e riconoscerci in ciò che già sappiamo. Ciò che troviamo in superficie, e qui mi torna utile Baricco, è la velocità e questa impone un altro modo di fare esperienza. Per questo motivo, dunque, ciò che sta alla superficie, pur se velato, cerca di mantenere vivo questo dinamismo. In superficie non possiamo riconoscere nulla perché il segno sta accadendo, sotto i nostri occhi. 

Il movimento, dunque, resta in superficie e a questa ci riporta. Addio profondità. Addio speleologi. Qui dobbiamo percorrere tracce, trame, incontri e scontri nel loro essere dinamici. Se si vuole tornare profondi, ci dice Tanzola nella sua arte, serve dinamismo e questo impone la superficie. Per l’altezza serve leggerezza; per la profondità serve il peso. 

La superficie anima la profondità e la turba. Le immagini di Tanzola turbano la nostra voglia di ricerche pesanti e profonde. Restiamo, dunque, alla superficie e con le trame di Tanzola proviamo a cercare un nuovo modo di fare esperienza. Solo allora, e chiudo sempre con Baricco, saremo figli della nostra epoca. Senza paure. Senza pre-giudizi. Solo con occhi nuovi, come chiedeva Picasso ai suoi contemporanei. Come vuole e chiede ogni artista alla sua epoca, al suo pubblico. 

 

Luca Cremonesi

(dal catalogo "Tanzola_Tradimenti",

Museo Torre Civica, Medole (MN) )